
Nessun genitore è così onnipotente da poter proteggere i propri figli dalle difficoltà della vita: li può però attrezzare meglio perché siano più forti e quindi in grado di non esserne travolti quando le incontreranno.
La letteratura racconta davvero molto bene come si sia passati da un modello genitoriale autoritario e rigido ad un modello moderno nettamente più incentrato sul benessere dei figli.
I genitori si sono assunti sempre di più il compito di “vederli felici”, e non è certo una cosa facile da ottenere, soprattutto quando il livello della felicità altrui diventa il parametro valutativo della propria efficacia e specchio dell’immagine che si ha di sé come genitore.
Avere un figlio vuol dire proteggerlo ma anche educarlo al fatto che la realtà è ben diversa da come ce la si immagina, e non sempre è piacevole: bisogna allenarsi all’eventualità di poter attraversare anche le tempeste peggiori, se ci si cammina accanto.
Francoise Dolto, psicoanalista infantile del secolo scorso, amava ripetere ai genitori che le chiedevano come fare a tollerare figli arrabbiati che il loro compito non poteva essere di piacere ai figli, ma quello di educarli alla vita. Ricordava anche loro che non sono la madre o il padre ad essere “cattivi”, ma è la vita stessa ad essere ingiusta e che il ruolo educativo dei genitori consiste proprio nell’aiutarli a prendere atto, attraverso l’amore protettivo, che quell’evento o quel rimprovero erano in grado di trasmettere.
I genitori di oggi hanno smarrito questo insegnamento e si sono trasformati in genitori “spazzaneve”, pronti ad appianare qualsiasi difficoltà pratica, emotiva e relazionale che possa frapporsi fra i figli ed i loro obiettivi.
Questo, paradossalmente, genera delle conseguenze più negative che positive.
Per riuscire in questo intento, infatti i genitori devono necessariamente mettere da parte la loro felicità per potersi occupare quasi esclusivamente di quella prole.
Devono offrire ai figli l’immagine di un futuro ricco di possibilità e ambizioni ed incoraggiarli costantemente affinchè raggiungano l’eccellenza in qualsiasi campo. Poiché sono consapevoli che i figli imparano dai modelli a cui fanno riferimento, cercano loro stessi di porsi come tali, mostrandosi grottescamente sempre all’apice del successo e circondati da oggetti materiali che lo sanciscono: l’ultimo paio di scarpe prodotte, se possibile in numero ultralimitato, l’ultimissimo modello del cellulare più famoso, la macchina con più optional….
Sapete in realtà cosa fanno? Mentono.
Trasmettono l’immagine pubblicitaria di un mondo che non c’è, promettono l’elisir della felicità miracolosa, nascondono i buchi neri che li attraversano e che sono composti da fragilità e timori per il loro stesso futuro.
Impediscono la conoscenza della realtà.
Mentono, ma ai bambini non si dovrebbe mentire mai.
Si dovrebbe invece imparare a raccontare loro la verità attraverso esempi e parole che possono comprendere, sia per quanto riguarda gli eventi felici, nascita di fratellini, guarigione da una malattia… sia per quanto riguarda gli eventi tristi, quali la morte, le difficoltà familiari, la malattia…
Per crescere al meglio i bambini non hanno bisogno del miraggio della felicità e della perfezione, ma devono poter sperimentare la certezza delle difficoltà della vita, accompagnati da coloro che amano e da cui si sentono sostenuti e protetti.
Per poterlo fare i genitori devono smetterla di nascondersi dietro il muro delle proprie fragilità con il timore di “contagiare” i figli o di mostrarsi loro altrettanto affaticati, devono iniziare a farsi coraggio e ad offrirsi per quello che sono: mamma e papà.
Di essere cioè nella bellissima espressione di Donald Winnicott, genitori “sufficientemente buoni”.
In questo modo i figli
- impareranno ad accettare l’altro perché è diverso da me e mi può offrire un nuovo punto di vista;
- impareranno che le giornate pesanti esistono, che si ha la necessità di staccare ma gli impegni presi vanno comunque rispettati;
- impareranno che ci sono regole universali che non possono essere trasgredite senza conseguenze, ma che ve ne sono altre che permettono la presenza di eccezioni di cui tutti hanno il diritto di usufruire, qualche volta;
- impareranno che l’arte di assumersi le proprie responsabilità e inseguire i propri obiettivi è difficilissima, e spesso richiede uno sforzo che non ci si riteneva in grado di compiere, ma che poi il risultato finale ripaga di tutta la fatica ed i sacrifici.
Spesso sarà proprio infatti il riuscire ad essere presenti ma a non intervenire di fronte alle difficoltà di un figlio, senza per questo abbandonarlo emotivamente, ciò che potrà permettere a lui penando e faticando di scoprire, educare e rinforzare le sue stesse risorse per gli altri periodi di difficoltà che la vita gli farà inevitabilmente incontrare.
Imparerà a poco a poco che la vita è complessa, spesso difficile, a volte calma ma altre volte burrascosa. Imparerà che non esistono ricette preconfezionate o istruzioni sul vivere, ma che ognuno di noi trova il proprio modo di affrontare i problemi cadendo e rialzandosi, per tentativi ed errori, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
Questo è un punto di vista molto difficile da assumere per il genitore perché così facendo può avere l’impressione di tradire il suo ruolo protettivo di adulto, sentendosi ancora più in crisi di prima.
Una presenza silenziosa ma empatica testimonia concretamente che le difficoltà sono superabili o affrontabili e fornisce quindi un modello più evoluto di funzionamento mentale.
Insegna ad aspettare, a tollerare la frustrazione, a non intervenire subito, a dare il tempo agli eventi perché abbiano il loro decorso naturale.
Al contrario, l’intervenire subito a tutti i costi fornisce come modello quello di non sapere attendere, di non riuscire a tollerare la frustrazione, di non avere fiducia nelle risorse dell’altro: l’esatto opposto di quello che solitamente diciamo a parole.
E’ questa una capacità che accompagna molto bene davanti agli ostacoli.
Il pedagogista clinico non vuole dare risposte già preconfezionate ai genitori in difficoltà, ma li aiuta a cercarle piano piano dentro di loro. Sarebbe più facile per noi dare risposte e consigli invece che vivere la loro stessa frustrazione, iniziando insieme un percorso di ricerca e di riflessione, partendo entrambi dalla capacità di tollerare di non sapere. Non è per niente facile, ma se si è accompagnati da qualcuno che ne condivida il peso, forse il cammino diventa un po’ meno faticoso e può essere intrapreso.
Educare non è un mestiere, ma è un atteggiamento, un modo di essere; per educare bisogna uscire da se stessi e stare in mezzo ai ragazzi, accompagnarli nelle tappe della loro crescita mettendosi al loro fianco. (Discorso del Santo Padre Francesco agli studenti delle scuole nel giugno 2013).
Per la stesura di questo blog ho preso spunto e riportato pensieri tratti dal libro “Stiamo calmi!” di Marina Zanotta, edito Bur Rizzoli 2020. E’ un testo molto interessante e vi consiglio di leggerlo!
E voi, che tipo di genitori pensate di essere? Vi siete ritrovati nella descrizione fatta?
Scrivetemelo nei commenti!
